Il Decreto Legislativo n. 23 del 2015, il cosiddetto Jobs Act, ha introdotto, in caso di licenziamento con contenzioso di un dipendente, la procedura di conciliazione che si diversifica in tre tipologie: facoltativa, nel caso di licenziamento per giustificato motivo preventiva e a tutele crescenti.
Nel caso di conciliazione facoltativa il Decreto Legislativo n, 183 del 2010 sancisce che le parti interessate in una controversia individuale possono rivolgersi come non rivolgersi al giudice se la controversia riguarda:
- impugnazione del licenziamento;
- pretesa retributiva;
- costituzione del rapporto di lavoro;
- violazione del dovere di fedeltà;
- risarcimento danni;
- violazione del patto di non concorrenza;
- violazione di obblighi di sicurezza e igiene sul lavoro;
- illegittime modalità di attuazione del diritto di sciopero.
La conciliazione facoltativa prevede che colui che la propone, quindi lavoratore o datore di lavoro, presenti domanda, presso la Segreteria delle Commissioni provinciali, indicando:
- generalità delle parti;
- luogo della conciliazione;
- luogo delle comunicazioni;
- esposizione dei fatti;
- ragioni che li sostengono.
I funzionari della Direzione Provinciale del Lavoro devono verificare i dati, se i dati sono corretti, entro 20 giorni dalla richiesta o dalla ricezione dell’istanza al convenuto, la controparte può depositare le proprie contro-difese ed eventuali domande. Nei successivi 10 giorni, i funzionari della Direzione Provinciale del Lavoro devono convocare le parti dinanzi alla commissione o sottocommissione di conciliazione e poi, entro 30 giorni dalla convocazione, deve svolgersi il tentativo di conciliazione.
Nel caso in cui venga portato a termine, se la conciliazione viene raggiunta anche parzialmente, si redige un verbale sottoscritto dalle parti e il giudice del lavoro, su istanza di parte, rende esecutivo il decreto. Se non si raggiunge l’accordo conciliativo, la commissione deve sottoporre alle parti una proposta conciliativa da inserire obbligatoriamente a verbale, con indicazione delle posizioni delle singole parti.
Per la conciliazione preventiva ricordiamo che la Legge n. 92 del 2012, la cosiddetta Legge Fornero sancì che prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro che abbia avuto i requisiti dimensionali, cioè più di 15 dipendenti nella singola unità produttiva o nell’ambito comunale o più di 60 nell’ambito nazionale, deve esperire una procedura di conciliazione per esaminare i motivi che sono alla base del recesso e per raggiungere un eventuale accordo tra le parti. In caso di mancanza di questa condizione il licenziamento risulta illegittimo.
Il datore di lavoro invia alla Direzione Territoriale del Lavoro una comunicazione in cui dichiara l’intenzione voler procedere al licenziamento, indicando motivi e misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore. Tale comunicazione si trasmette anche al lavoratore e in seguito la Direzione Territoriale del Lavoro convoca le parti entro 7 giorni dalla ricezione della richiesta. Se non vi è convocazione entro 7 giorni, il datore di lavoro può procedere al licenziamento. Diversamente, l’incontro si svolge dinanzi alla Commissione di Conciliazione e la procedura deve concludersi entro 20 giorni dalla trasmissione della convocazione, ad eccezione nell’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo.
Se la conciliazione è negativa si redige un verbale e il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. Qualora il Giudice ritenga illegittimo il licenziamento, procederà a determinare l’indennità di risarcimento.
Se la conciliazione è positiva e vi è la previsione di risolvere consensualmente il rapporto, il lavoratore avrà diritto alla indennità di disoccupazione.
La conciliazione a tutele crescenti è stata introdotta dal Jobs Act e si applica ai contenziosi sorti esclusivamente per lavoratori assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015, per i contratti trasformati da lavoro a termine a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 e per i lavoratori qualificati da un rapporto di apprendistato dal 7 marzo 2015.
Nel caso in cui il datore di lavoro abbia intimato il licenziamento nei confronti di un lavoratore assunto a tutele crescenti, può offrirgli entro 60 giorni, al fine di evitare di andare in giudizio, un importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Trattamento di Fine Rapporto, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’importo non costituirà reddito imponibile ai fini fiscali, né sarà assoggettato a contribuzione previdenziale. Nel caso in cui il lavoratore accetti questa proposta, il rapporto si estinguerà ed egli rinuncerà ad eventuale impugnazione anche qualora egli l’abbia già proposto. Se il datore di lavoro utilizzerà questa offerta, in qualunque caso, è tenuto ad effettuare una comunicazione obbligatoria tramite procedura UNILAV Conciliazione sul portale Cliclavoro.
il Jobs Act ha introdotto il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti che ha cambiato le regole per il licenziamento individuale, sia discriminatorio sia per giustificato motivo o disciplinare e quindi anche la conciliazione per sanare eventuali controversie tra lavoratore e datore di lavoro.
Nel licenziamento discriminatorio, perché intimato solo in forma orale, il giudice ordina il reintegro nel posto di lavoro e condanna il datore al pagamento di una indennità non inferiore a 5 mensilità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per il periodo che va dal giorno del recesso fino a quello di effettivo reintegro. Per il medesimo periodo bisogna versare i contributi previdenziali e assistenziali. Il lavoratore ha la facoltà di chiedere in sostituzione della reintegrazione una indennità pari a 15 mensilità, risolvendo il rapporto.
Nel contratto a tutele crescenti è esclusa la reintegrazione ed è previsto un indennizzo certo e crescente in funzione dell’anzianità di servizio. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legato a ragioni inerenti: attività produttiva, organizzazione del lavoro, suo regolare funzionamento. In questi casi l’indennità è pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio. Questo importo non può essere inferiore a 4 mensilità né superiore alle 24. Per le Pubbliche Amministrazioni l’indennità è dimezzata e non può essere superiore a 6 mensilità.
Nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo il lavoratore ha solo diritto al risarcimento del danno pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio, comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24. Anche in questo caso per le Pubbliche Amministrazioni gli importi sono dimezzati e il limite massimo è fissato in 6 mensilità. Se il lavoratore dimostra l’insussistenza del fatto materiale che gli è stato contestato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione e al pagamento di in risarcimento commisurato all’ultima retribuzione e anche al versamento dei contributi.
Come abbiamo visto sopra, nel caso della conciliazione, legate a controversie per licenziamenti illegittimi il datore di lavoro può offrire un importo esente da IRPEF e contributi pari a una mensilità per ogni anno di servizio, comunque compreso tra 2 e 18 mensilità. Se il lavoratore accetta, si estingue in automatico il rapporto alla data del licenziamento, esso rinuncia all’impugnazione anche se già avviata ed avrà diritto all’indennità di disoccupazione.
In caso di licenziamento, quindi, ce n’è per tutti i gusti. Certo, quella del licenziamento, si spera sempre che sia un’ipotesi sempre molto remota, però, forse, la legislatura negli anni sta cercando di dimostrare che vuole avvicinarsi sempre di più dalla parte dei lavoratori.
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